Il premio Nobel per l’Economia 2016 è stato assegnato a Oliver Hart e Bengt Holmstrom per “aver sviluppato la teoria dei contratti, schema esauriente per analizzare diverse problematiche dell’architettura contrattuale”. I primi commenti a caldo– come per esempio questo – parlano di un riconoscimento contro la disuguaglianza e per la tutela delle minoranze, come già accaduto nel caso del premio assegnato ad Angus Deaton nel 2015. Ma il libro più famoso di Deaton, La grande fuga, era stato presentato anche come un testo che evidenziava i vantaggi del sistema capitalistico per la crescita e il progresso dell’umanità, mentre le teorie di Hart e Holmstrom potrebbero essere ricondotte nell’ambito della teoria dell’impresa capitalistica. Insomma, dire se un premio Nobel sia in linea con il mainstream liberale, liberista o neoliberista o se invece sia più allineato a idee progressiste è spesso una questione di interpretazione e, soprattutto, di interpreti. Al tema più generale di come l’ideologia neoliberista si fosse imposta negli ultimi decenni, Luciano Gallino aveva dedicato alcune analisi: secondo il sociologo torinese, il soft power neoliberista si basava su una rete pervasiva di cattedre universitarie e di think tank, tra i quali il Cato Institute e l’Heritage Foundation negli Stati Uniti, l’Adam Smith Institute e l’Institute of Economic Affairs in Gran Bretagna, la Mont Pelerin Society fondata in Svizzera nel 1947, le Bildeberg Conferences iniziate in Olanda nel 1952 (vedi Six Memos del 24 gennaio scorso). Sarebbe ora interessante capire se anche il comitato del Nobel possa essere ricompreso nel soft power mercatista: un possibile criterio è quello di prendere in considerazione la serie dei Nobel assegnati a partire dal 1978, anno precedente l’elezione a primo ministro di Margaret Thatcher, un periodo che, secondo molti, sarebbe fortemente segnato dal paradigma neoliberista. In 39 anni, con 64 premiati e 43 motivazioni diverse, è possibile individuare un primo nucleo di “non allineati” che secondo Joseph Stiglitz (in Le nuove regole dell’economia) divergono dal modello economico standard (cioè a informazione e concorrenza perfetta): lo stesso Stiglitz, George Akerlof e Michael Spence (informazione asimmetrica), Jean Tirole (mercati e regolamentazione), Daniel Kahneman (economia cognitiva), Oliver Williamson (governance economica), Douglas North (economia e istituzioni), John Harsanyi, John Nash e Reinhard Selten (teoria dei giochi non cooperativi), Elinor Ostrom (beni comuni). A questi si potrebbero aggiungere almeno Amartya Sen (economia del benessere), Vernon Smith (economia sperimentale), Robert Aumann e Thomas Schelling (teoria dei giochi cooperativi), Paul Krugman (commercio internazionale), Herbert Simon (processi decisionali). Sono 12 motivazioni su 43. È una proporzione che segnala un soft power neoliberista? Forse sì, anche se, come detto, valutare un premio Nobel è questione di interpretazione e di interpreti.